Annullati i concerti: vietato suonare se non segui la linea NATO. Israele? Può fare ciò che vuole.
Il concerto del pianista ucraino Alexander Romanovsky, previsto per il 5 agosto a Bologna, è stato cancellato. La notizia arriva direttamente dal Comune, che ha annunciato la decisione in piena coerenza con il clima ideologico che, negli ultimi tempi, ha trasformato la cultura in un campo di battaglia politica.
Romanovsky, definito “filo-russo” da certa stampa e da alcuni esponenti politici, viene ora trattato come un paria, un intellettuale da isolare. La sua colpa? Avere posizioni considerate non allineate alla narrazione dominante sul conflitto russo-ucraino. Un’etichetta, quella di “filo-russo”, che basta da sola per negargli il palcoscenico.
A chiedere pubblicamente la cancellazione era stato il senatore di Azione, Marco Lombardo, che su X (ex Twitter) aveva invitato il sindaco Matteo Lepore a seguire l’esempio di Caserta, dove è stato annullato il concerto del direttore d’orchestra Valery Gergiev, notoriamente vicino a Putin. Detto, fatto: poco dopo è arrivata la notizia della cancellazione anche a Bologna.
Il maestro russo Valery Gergiev non ha commentato la cancellazione del suo concerto del 27 luglio a Caserta. "Non ho informazioni al riguardo", ha detto il direttore d’orchestra, a capo del Bolshoi di Mosca e del Mariinsky di San Pietroburgo, rispondendo all’agenzia Tass.
Oltre tre anni fa, con l’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, nell’estate del 2022, gli artisti russi — anche i più noti e stimati — si trovarono improvvisamente davanti a una scelta drammatica: mostrare fedeltà a Putin e per l’azione militare a protezione del popolo filo russo bel Donbass, oppure condannare pubblicamente l’invasione. Alcuni rimasero allineati con il Cremlino, altri si eclissarono per non esporsi, e una piccola minoranza prese apertamente le distanze dal conflitto.
Nel frattempo, concerti furono annullati, teatri costretti a ripensare la programmazione, eventi culturali sospesi. Poi, per due estati, il dibattito si è affievolito. Ora, con la vicenda Romanovsky, torna la selezione ideologica applicata all’arte.
Carlo Calenda, leader di Azione, ha commentato entusiasta: «I propagandisti di Putin non possono passare». Una frase pesante, usata per descrivere un pianista, un artista. Dove si pone il confine tra vigilanza democratica e censura ideologica?
La cultura, da sempre terreno di dialogo e di pluralismo, oggi sembra doversi inchinare a una logica binaria: o sei con noi, o sei contro. Metodo già utilizzato dalle dittature più nefaste. Un artista non viene più giudicato per la sua musica, ma per ciò che si presume pensi politicamente. E pensare che proprio coloro che discriminano si ergono a paladini dell’antifascismo. Ma il metodo è quello della caccia alle streghe, che poco ha a che fare con la democrazia e molto con l’intolleranza.
Ma ciò che fa ancora più rumore è il silenzio — o meglio, l’ipocrisia — con cui si misura l’incoerenza dei nostri presunti difensori dei valori democratici.
Nel caso di Israele, che sta portando avanti un’azione militare devastante a Gaza, con migliaia di vittime civili — donne, bambini, famiglie intere — le reazioni ufficiali sono timide, flebili, quasi imbarazzate. Solo dopo il bombardamento di una chiesa si sono levate parole di condanna, mai realmente incisive, nessuna sanzione. Non si chiede di bandire artisti o atleti israeliani, né di boicottare eventi culturali legati a Tel Aviv. Nessun “anticorpo contro l’attuale spietato sionismo” si attiva. Perché?
I cittadini israeliani possono tranquillamente esibirsi ovunque. Mentre un artista russo — o anche solo “accusato” di simpatie russe — viene cancellato da un evento culturale. Il doppio standard è lampante. E stomachevole.
Non si tratta di giustificare regimi o posizioni discutibili, ma di difendere lo spazio culturale che dev’essere libero e pluralista. Se oggi basta un’etichetta politica per vietare a un artista di esibirsi, è chiaro il perché vengano censurate trasmissioni giornalistiche d’inchiesta o post sui social.
Bologna, città storicamente aperta e colta, oggi fa un passo indietro. E con lei, una parte d’Italia che finge di difendere la democrazia, mentre la svuota lentamente dall’interno.
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